Alcune riflessioni sul linguaggio inclusivo di genere
I manuali di scrittura sono bellissimi. Perché, a differenza degli altri manuali che ti insegnano, per esempio, come usare il forno, quelli di scrittura riescono sempre a dirti qualcosa in più della realtà in cui vivi.
Le parole e l’uso che ne facciamo dicono molto di noi e del nostro “essere nel mondo”: recentemente, ho letto una guida di scrittura -appunto bellissima- redatta da Ruben Vitiello, che parla del linguaggio inclusivo di genere.
Che cos’è il linguaggio inclusivo?
Come dice l’espressione stessa, è un linguaggio che include. Chi? Un numero maggiore di persone, senza che siano escluse per condizione fisica, razza, genere o per orientamento sessuale. Penso ci troviamo tutti d’accordo, almeno in teoria, sulla necessità di usare un linguaggio inclusivo nella comunicazione; tuttavia, concretizzare questa necessità nella nostra lingua è ben altro.
Per esempio, nella frase appena conclusa sarebbe stato meglio scrivere “tutti/e d’accordo”?
Avremmo così evitato che le lettrici si sentissero escluse?
La guida ci viene in aiuto: meglio non usare sbarre, parentesi, asterischi o altro; in questo caso, ce la saremmo cavata semplicemente togliendo quel “tutti”.
Eppure, nessuna persona avrebbe da obiettare sul fatto che i plurali neutri (maschili) valgono anche per i femminili: voi non scrivereste mai “gli uomini e le donne sono andate in montagna”, giusto?
Ambigenere non significa maschile
Chi, come nel mio caso, si trova a redigere documentazione tecnica per applicazioni web, ha spesso a che fare con la parola “utente”, declinabile sia al maschile che al femminile. Troveremo quindi che “molti utenti” hanno scaricato la guida al linguaggio inclusivo per leggerla in modalità offline; ma potrebbe essere anche “un gran numero di utenti” ad averla scaricata, comprese le utenti. In sostanza, un gran numero di plurali e singolari neutri (sempre declinati al maschile), con un po’ più di accortezza, si possono ridurre. In un’app, un “Grazie per esserti registrato” diverrà “Grazie per aver completato la registrazione” o “Da 1 a 10 quanto sei soddisfatto del nostro servizio?” potrà essere riscritto come “Da 1 a 10 quanto ti soddisfa il nostro servizio?”
Naturalmente, non è sempre così facile. Anzi.
Che lavoro fai? Questo è un problema
Più le parole dicono della vita di tutti giorni e più è complesso separarle da un’idea radicata di società e di cultura. Ed ecco che i nomi delle professioni al femminile rappresentano uno dei temi più controversi e dibattuti del linguaggio inclusivo.
La declinazione del genere femminile in certi contesti lavorativi, non di rado motivo di scherno e di polemiche, evidenzia come professioni, fino a tempi non sospetti appannaggio esclusivo degli uomini, siano svolte oggi anche dalle donne, in numero sempre maggiore.
Come spiega la nostra bellissima guida, parole come “assessora”, “sindaca” o “avvocata” non sono neologismi: “semplicemente, fino a un certo punto della nostra storia non sono state necessarie perché descrivevano concetti che non esistevano”. Ancora una volta, le parole o, in questo caso il loro disuso, ci dicono molto di noi, di come eravamo e di come siamo ancora.
Al di là dei risvolti socio-culturali sul tema, di cui si è ampiamente occupata la linguista Vera Gheno nel suo Femminili Singolari, il problema dell’uso dei femminili professionali non si limita a sostituire la “o” di sindaco con una “a”.
La guida ci insegna che se il genere della persona è noto, possiamo usare il genere grammaticale corrispondente, per esempio “la presidente”, “la cantante”, “la capogruppo”; ci dice anche che è sempre meglio evitare l’articolo davanti al cognome di una donna (es. la Merkel); che usare a sproposito il suffisso -essa (es. sindachessa), all’infuori dei termini già affermati nell’uso (es. professoressa, studentessa), può addirittura risultare spregiativo. Ma ci sono anche espressioni che vanno ben oltre il “peso canzonatorio” dei femminili professionali e che testimoniano la visione di un mondo ancora marcatamente stereotipato, come Donnicciola per definire un uomo pauroso e debole, solo citandone una.
L’inclusività non è un vezzo
Insomma, l’idea di un linguaggio davvero inclusivo per usare la lingua italiana nel mondo digitale non è circoscritto a una migliore esperienza utente ma si estende alle possibilità evolutive della comunicazione tout court, dove per “evolutive” intendo proprio “inclusive”: con il linguaggio parliamo di noi e dei nostri valori, per strada come in Rete.
Se l’inclusività sociale passa anche attraverso l’accuratezza che si deve all’uso delle parole, ciò non può non riflettersi nella dimensione digitale che è costruita e si evolve interamente sull’informazione.
No Comments