Ogni volta che vedo impropriamente scritta la parola startup (o start-up o startup innovativa, concetto che fra l’altro esiste solo in Italia per volontà legislativa) mi viene acidità di stomaco. Ecco perchè non sarei riuscita a spiegarvi cos’è una startup senza incorrere in ulteriori problemi fisici e mi sono affidata alle parole di un amico e founder di Uniwhere, Gianluca Segato, con il quale condivido molto, soprattutto questi pensieri. Vi lascio alle sue parole.
Definire cos’è una startup, così come in realtà definire tutte le cose complesse ed in continuo cambiamento, è un compito veramente difficile. Ognuno ha una sua definizione in testa, più o meno aderente alla realtà, le opinioni spesso prevalgono sui fatti, ed in certi casi si scende a livello di tifo da stadio invece che di confronto aperto.
Guardandosi un po’ intorno in Italia (ma è abbastanza così anche in Europa continentale), sembra che fare startup sia avere un’azienda o un progetto che di base risponde ad almeno uno di due criteri: è nuova, è tecnologica, o è entrambe.
Startup diventa quindi l’agenzia che sviluppa siti web (perché “fa tecnologia”), la piccola media impresa nata un paio di mesi prima (perché è “piccola e appena nata”), il gelataio che ha introdotto un nuovo modo per entrare in gelateria ed ordinare il gelato (“ci riteniamo in certi sensi una startup”), un’azienda consolidata che introduce una qualche tipo di innovazione tecnica per differenziarsi dalla competition, o avere qualche titolo di giornale in più e rassicurare i propri shareholders (“ci riteniamo in certi sensi una startup”, parte 2).
Inquadrare cos’è una startup è sì molto complicato, ma di portata fondamentale. In particolar modo perché tiene in riga le aspettative, nel macro mondo dei media e delle istituzioni, nel micro dei “wannabe startuppers” e dei “wannabe investors”. Insomma: sapere a cosa si va incontro assicura di non perdere soldi nell’aspettattiva che questi arrivino, quando non ci sono neanche le premesse che questo accada.
Per quanto pochi, alcuni fatti fissi su cui possiamo far conto ci sono: solo alcune tipologie di aziende molto specifiche hanno la possibilità di ricevere investimenti per diventare businesses internazionali. E la loro novità, o componente tecnologica, o piccola dimensione, non è che una conseguenza della loro struttura.
Ma non è la causa. La causa sta nella struttura del loro business.
Quindi, cos’è una startup?
Una delle definizioni più calzanti arriva da un signore, tal Steve (Blank). Steve, capello brizzolato, occhiali e sorriso rassicurante, insegna a Stanford, alla Columbia e a Berkley.
E, incidentalmente, è dagli anni 90 uno dei padri fondatori del movimento startup.
Blank definisce una startup come una organizzazione temporanea creata con lo scopo di trovare un modello di business scalabile e ripetibile.
Temporanea, ripetibile, scalabile. La sacra trinità che identifica una startup. Qualsiasi azienda non rispetti questi criteri, non può essere definita startup, non riceverà investimenti da venture, non diventerà un business globale in pochissimo tempo. Che è, alla fine, tutto quello che conta nel mondo delle startup.
Temporanea significa che non può rimanere per sempre una startup. O diventerà un business enorme, magari pure quotato (alla Google, per intenderci), o fallirà. Nothing in between.
Ripetibile significa che se ha funzionato oggi, può funzionare anche domani. Non cavalca una moda (fad), ma impelenta un’idea di business strutturale. Come un motore di ricerca.
Ed infine scalabile, il vero fulcro della definizione: può, a livello astratto, diventare un business globale perché i costi marginali a regime sono infimi. Rifrasato: i ricavi, in potenza, possono crescere molto più in fretta dell’aumento dei costi.
Hai una agenzia di comunicazione? Oltre ad un certo tetto di clienti, per crescere ulteriormente devi assumere di più, e costi e ricavi cresceranno più o meno insieme. Hai un motore di ricerca? Un cliente, due clienti, duecento milioni di clienti in più impattano i tuoi costi non proporzionalmente.
Puoi scalare.
Si intuisce quindi perché tecnologia e startup vadano a braccetto: la tecnologia (Internet in particolare) è quella cosa meravigliosa che consente di avere costi marginali ridottissimi a fronte di ricavi potenzialmente infiniti, in poco tempo.
Quando costa aprire una compagnia aerea? Permessi, capitale enorme, centinaia di migliaia di dipendenti.
Quando costa mettere su un sito web visitato da milioni di persone? Un laptop, un programmatore, e un buon cervello (banalizzo, ma avete colto il punto).
Perché scalare per una startup è così importante?
Perché scalare è così importante, chiede l’avvocato del diavolo? Posso essere startup anche senza scalare, fintanto che sono tecnologico.
Qui si entra nel terreno insidioso della lessicologia, dove bisogna inevitabilmente metterci d’accordo, essendo le parole solo convenzioni. Ma per il vocabolario di chi fa investimenti professionali in questa asset class molto peculiare, startup è chi scala. Quel business che diventa un colosso in tempi ridicoli a fronte di investimenti (parametrati) poco esosi.
È così che i fondi di venture capital funzionano. Richiedono ritorni astronomici in poco tempo (“devi scalare!”), perché a loro volta li hanno promessi a chi ha investito su di loro – i cosiddetti LP.
In termini di estrema sintesi, è semplice economia. Se si vuole diventare ricchi in poco tempo, si rischia tutto al gioco, un po’ d’azzardo ed un po’ no, chiamato startup.
Messe sul tavolo queste caratteristiche, ci si può rendere presto conto che una startup ha anche un metodo strategico e manageriale completamente diverso dalle PMI (SME) del caso.
Se una SME punta ad arrivare a break-even (ricavi superiori ai ricavi in modo strutturale) in fretta, e a rimanerci, le startup hanno questa cosa particolarmente controintuitiva del “non c’importa dei profitti, l’importante è fare growth, crescere”. Growth, growth at all costs, per parafrasare Churchill.
Una crescita che viene realizzata in modo aggressivo e scientifico, facendo uso di metodologie iterative molto particolari: provo (“testo”) e misuro tutto quello che è possibile provare, fino al raggiungimento del product-market fit, quel momento in cui ho trovato un prodotto che cresce a costi ridotti, che genera ricavi, che è desiderato dal mercato e che può essere scalato. E che quindi può far fruttare una montagna di soldi, ed impattare milioni di persone con il solo lavoro di qualche decina, o centinaia, di dipendenti.
Questa è una startup.
Non è un’agenzia di comunicazione, non è il burger joint dietro l’angolo, non è chi fa un’app, non è chi è tecnologico, chi è nuovo, chi è piccolo.
È chi ha inventato una nuova piattaforma di comunicazione (Buffer), chi ha scoperto un nuovo modo di comunicare più autentico ed istantaneo (Snapchat), è chi ha ha raccolto le esperienze sociali di tutto il mondo attraverso un’app (Facebook).
Chi, con poche braccia, tanti soldi, un metodo scientifico e la volontà ed il coraggio di rischiare tutto, prova a cambiare le cose per milioni di persone.
E, en passant, diventare ricco nel frattempo.
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