Era da qualche settimana che volevo scrivere questo post e ho continuato a rimandarlo perchè c’era sempre qualcosa di più urgente da fare.
Oggi è il giorno giusto, un po’ perchè mi sono chiusa fuori casa e ho più di un’ora che mi separa dal letto, dalla wifi di casa e dal mio computer pieno di task.
Un po’ perchè in questa caffetteria dietro casa ritrovo quel tempo per pensare che a volte quando sono tra le mie quattro mura trovo difficile da riprendere. Lavorare nel growth hacking significa essere sempre connessi, è quasi come se fosse parte di me.
Tuttavia oggi ho preso una decisione della quale voglio farvi partecipi.
Non perchè mi diate un feedback (sì, potete dirmi che sono completamente pazza e va bene) ma perchè vorrei che questo blog raccogliesse anche i miei pensieri e le mie esperienze, in modo che possa essere utile per me e per qualcun altro in situazioni simili.
Sei mesi com Growth Hacker in residence, pensavo la sfida fosse solo una.
Ho iniziato a lavorare con l’Open Data Institute circa sei mesi fa e visto che il mio contratto a tempo determinato sta ormai per finire, credo sia arrivato il momento di tirare le fila di questa esperienza.
L’Open Data Institute è l’organizzazione fondata nel 2012 da Tim Berners-Lee, co-inventore del World Wide Web, per dimostrare e promuovere il valore della condivisione dei dati aperti, “open data “, prodotti da aziende e organizzazioni pubbliche, per creare innovazione.
In soldoni, si tratta di applicare il concetto di Open Innovation attraverso la condivisione dei dati di qualsiasi organizzazione, affinchè le startup, che sono brave a produrre innovazione ma non hanno a disposizione grandi informazioni o uno storico, possano lavorare con le corporate per aiutarle a innovare condividendone i dati (ovviamente non si tratta di dati personali o sensibili).
Affermare che le startup lavorino solo con le corporate è un eufemismo in realtà, perchè gli “open data” sono considerati interoperabili, permettono quindi a tantissime componenti diverse di lavorare insieme, affinchè possano essere creati sistemi complessi.
Vi faccio un esempio: chi di voi usa Citymapper o Google Maps? Quelle app sono nate grazie al fatto che TFL, l’azienda che segue le metropolitane e i trasporti di Londra, ha reso “open” i dati relativi ai trasporti della città, compresi orari, mappe etc..
Se oggi potete girare liberamente per qualsiasi città del mondo è anche grazie agli open data, e qui vi lascio intuire le enormi possibilità di innovazione che ne derivano.
Sono entrata all’Open Data Insitute per lavorare in un team di una decina di persone all’interno di un’organizzazione di circa una cinquantina per seguire come Growth Hacker in residence due programmi di accelerazione in ottica Open Innovation: OpenActive e Data Pitch.
La mia posizione prima non esisteva: c’era il dipartimento di marketing e quello delle startup, collegati ma indipendenti. In soldoni: non si erano mai parlati al di là dei convenevoli.
Il mio obiettivo era quello di promuovere i due programmi di accelerazione all’interno e al di fuori dell’organizzazione, e di aiutare le 35 startup parte di quei programmi dal punto di vista di marketing e growth. Facile, ho pensato inizialmente, sapevo come parlare e lavorare come growth hacker con le startup. Ero pronta alla sfida.
Tuttavia, dopo qualche settimana ho iniziato a pensare che quello che avevo giudicato un lavoro facile non lo era per niente. Non si trattava solo di una sfida, ma erano molte di più.
I miei colleghi non avevano la più pallida idea di cosa fosse il marketing, pensavano si trattasse solo di gestire i canali social e di fare un po’ di piani di comunicazione, leggasi PR.
Oltre a non capirne il significato, non capivano come il marketing potesse aiutarli a raggiungere i loro obiettivi e non erano molto felici di cambiare le loro abitudini e pensieri perchè qualcuno che era appena arrivato (leggasi io) lo voleva.
La struttura interna non era proprio fluida, poichè, essendo una no-profit non c’era un’impostazione sulle metriche e sugli obiettivi da raggiungere.
Quindi, riassumento, erano molte le sfide che mi trovavo ad affrontare.
Erano più sfide all’interno di una prima sfida. Che cosa ho fatto?
Come ho portato il “mindset delle startup” in un team di 10 persone
Nei primi due mesi ho portato evidenza di numeri, di strategie, di obiettivi per le startup per far capire, secondo un approccio bottom-up, che le mie idee non erano solo idee.
Erano numeri e risultati.
Eppure, non è bastato.
Mi sono accorta che il mio approccio andava benissimo con le startup ma nel team raccoglievo i risultati opposti.
Ho dovuto alzare bandiera bianca.
Era quasi diventata una missione la mia, quella di fare capire che cosa significasse fare marketing e growth. Ero abituata a lavorare con chi mi assumeva (leggasi startup) perchè voleva che questo cambiamento avvenisse nel più breve tempo possibile.
Ma la mia motivazione, la mia esperienza e la mia determinazione non sono servite a cambiare la situazione. Non avevo l’autorevolezza per far cambiare le cose da sola.
Da sola non bastavo.
Ho iniziato quindi a parlare con il marketing centrale per far capire che era nell’interesse di tutti che le strategie di marketing fossero efficaci e coordinate.
Ho iniziato a lavorare spalla a spalla con quella che era la mia capa solo sulla carta, nel senso che la nostra esperienza e il nostro approccio erano uguali.
E anche lei aveva la mia stessa, motivazione, quella di far capire che cosa significasse far marketing e perchè era necessario che tutti fossero allineati agli obiettivi e alla strategia, non solo chi era nel team di marketing.
Finora, c’era stata frammentazione e poco allineamento e potevamo lavorare assieme affinchè questo cambiassse.
Ho imparato qualcosa che nelle startup non sarebbe mai successo, perchè nei team early-stage i cambiamenti avvengono sempre bottom-up: nelle startup le persone sono motivate e vogliono raggiungere gli obiettivi non solo per il progetto ma per un obiettivo di auto-realizzazione personale. Là fuori non è ovunque così.
Ho imparato che senza i senior leader “dalla parte giusta del marketing” non avrei ottenuto nulla. Oltre alla responsabile di marketing, ho cercato di avere dalla mia parte i senior che si occupavano delle persone, degli obiettivi e della strategia dei programmi legati alle startup.
Dovevo far capire ai senior leader che le persone che gestivano con le quali mi interfacciavo avevano bisogno di uscire dall’idea che il marketing fosse “postiamo qualcosa su twitter” e spingerli a pensare al marketing come a un contributo all’obiettivo e al risultato finale del progetto.
Sarei stata io poi a pensare e a sviluppare le strategie che andavano a soddisfare quelle ipotesi o quell’obiettivo. Tutti avrebbero dovuto fidarsi di me e di quei risultati, senza tuttavia entrare nel livello di dettaglio che sarebbe rimasto a me. Non avevano l’esperienza per poterlo fare: mi avevano assunto per quel motivo, perchè ero un’esperta e quindi mi dovevo occupare di individuare il problema e di capire come risolverlo.
Si trattava di un cambiamento di mentalità. Un nuovo mindset per il mio team ma non per me, perchè si tratta di un percorso che faccio sempre quando lavoro come consulente di growth marketing con startup early-stage.
Avrebbero dovuto includermi nella definizione di piani e strategie per definire gli obiettivi e capire assieme quale fosse l’obiettivo di marketing e la strategia per raggiungerlo.
Il mio lavoro è stato enorme, soprattutto di pazienza, condivisione e apprendimento. E quando sei abituato a raggiungere gli obiettivi in corsia di sorpasso ai 180km/h in autostrada, perchè per le startup essere veloci è fondamentale, non è per niente semplice mettere la freccia e aspettare in corsia d’emergenza.
E a volte mi trovavo a fare entrambe le cose su due auto diverse, con l’obiettivo di farle correre allineate.
Dovevo continuamente ricordare che l’efficacia di qualsiasi piano dipendeva dall’obiettivo, non dall’idea di condividere un tweet o lanciare una campagna. Un tweet era più facile da fare, ma sicuramente meno efficace. Ci sono stati momenti dove mi sono arrabbiata, dove ho pensato di lasciare, dove le persone non si sono comportate bene perchè mettevi in gioco la loro certezza e l’abitudinarietà del day-to-day.
Ci sono stati momenti, come oggi, dove finalmente durante un meeting, alcuni piani sono stati rimessi in discussione dai senior leader perchè l’obiettivo non era stato definito, ma erano stati considerati solo gli strumenti.
Mi sono ricordata che lavorare con le persone è la cosa più complessa al mondo, anche se pensi che un lavoro o un progetto siano facili da portare a compimento.
Cosa mi sono portata a casa da questa esperienza
Ho imparato che puoi essere il top del top a fare il tuo mestiere, ma se non sei capace di gestire le persone, beh, non c’è molto che tu possa fare a parte imparare come si fa.
E se c’è qualcuno sopra di te che non ne è capace, beh, è necessario fare sistema per lavorare assieme sulle persone.
Ho imparato che se ti viene detto che quella posizione è nuova e non c’era prima ci sono due cose sulle quali devi contare fin dall’inizio, oltre alla tua pazienza: i senior leader del progetto e il tuo capo.
Ho imparato che i cambiamenti nelle organizzazioni che non sono strutturate secondo metriche e obiettivi avvengono solo se i responsabili ritengono siano necessari.
Le persone non cambieranno mai perchè un loro collega crede sia il caso di fare le cose in modo diverso.
Non tutti fanno del loro lavoro la loro passione e preferiscono continuare a fare in modo monotono gli stessi task, senza porsi troppe domande per ricevere uno stipendio a fine mese.
Ho imparato che avere un bravo capo dalla tua parte può davvero fare la differenza e che non serve avere 15 anni di esperienza per esserlo.
E’ la prima volta che creo un vero e proprio team di cambiamento all’interno di un’organizzazione e devo dire che sono proprio felice dei risultati raggiunti.
Ho imparato che per me un bravo capo deve amare il proprio lavoro, deve essere curioso e aperto alle le novità e supportare e motivare le persone che gestisce. E qui arriviamo all’altra decisione che ho preso.
Ho detto di no a un nuovo potenziale lavoro. Con chi?
Quest’estate ho messo in fila alcuni progetti, che sono davvero ambiziosi.
Se mi seguite sapete già quali sono.
Ci sono anche un paio di clienti che non vorrei mollare proprio adesso.
Una vacanza a gennaio per festeggiare il mio compleanno in un’altra spiaggia tropicale.
E magari un po’ di tempo da vivere lento, perchè negli ultimi due anni non mi sono mai fermata, a parte quando era davvero necessario.
Ho detto di no a un nuovo potenziale lavoro per tre motivi.
Il primo: non era nei miei obiettivi. Non si possono mettere in piedi piani non previsti (leggasi casuali) solo perchè “bisogna fare così”, questo l’ho imparato non solo all’ODI ma negli anni precedenti con le startup. Avere gli obiettivi chiari è la prima domanda che faccio a tutti i potenziali clienti con cui parlo, altrimenti non andremo mai d’accordo. E questo, ovviamente, vale anche per me stessa.
Il secondo è che quando ti dicono che stanno penando quali sono gli obiettivi di quella figura, ho imparato a pensarci. Perchè include avere un capo che ti segue, si mette in discussione con te, aperto alle nuove idee, che non voglia solamente scaricare la patata bollente senza dover preoccuparsi del “come” ma dei risultati.
Ce ne sono pochi di capi così ma quello che ho imparato dal mio ultimo lavoro in team è che non contano i nomi o le aziende, contano le sfide che puoi cogliere solo se ci sono persone nel tuo team in grado di seguirti e di supportarti. E capire le persone fin dai primi momenti è una tecnica che ho affinato molto, soprattutto negli ultimi anni come consulente.
Il terzo è che l’autorealizzazione dipende da te, non da un’azienda.
Nessuna mission aziendale o ruoli saranno più importanti della tua motivazione personale. Sono ancora troppo irrequieta e curiosa, ho troppe cose e idee per le mani per chiudermi nelle dinamiche di un’azienda grande 100 volte l’ODI.
Ecco perchè ho detto di no a un lavoro con Google.
Ora, prendetemi pure per pazza ma, per il momento, sono felice così. 😉
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