Avevo questo post in bozza e visto il buzz virale su tutti i social media per l’ennesima campagna della Ferragni ecco arrivato il momento giusto. Qualche mese fa mi avete detto nelle stories che vi interessava capirne un po’ di più sul tema influencers e questa campagna di influencer marketing era troppo ghiotta per farsela fuggire.
Per chi si fosse perso la recente polemica spieghiamo: la Ferragni è agli Uffizi a fare uno shooting con Dior e concede un selfie che il/la social media manager pubblica su Instagram con una didascalia che la paragona alla Venere del Botticelli.
Reazione tra i conservatori (40+): Blasfemia!
Reazione tra i giovani (under30): wow, cosa sono gli Uffizi e chi è Botticelli?
Reazione tra gli addetti ai lavori (e mia): azione ambiziosa e pop, stanno cercando di allargare l’audience anche a chi non è mai entrato in un museo come gli Uffizi (aggiungo: strategie che all’estero sono il pane quotidiano).
Dopo 3 giorni esce la PR che dimostra che c’è stato un incremento settimanale del 27% tra i giovani. Bingo, giusto?
Cosa ne sanno gli influencer?
Inizio subito dicendo qualcosa di impopolare: qualsiasi sia la vostra opinione sulla Chiara nazionale mi dispiace ma non è nello scopo di questo articolo. Perché appunto, trattasi di opinione. La Ferragni ci può piacere oppure no, ci può stare simpatica oppure no, ma le opinioni in genere non sono davvero utili ad analizzare un problema perché sono soggettive e dipendono da miliardi di situazioni, esperienze, abitudini. Ed è proprio quello il bello: ognuno di noi ha opinioni diverse. Le opinioni tuttavia non sono sempre utili quando vogliamo analizzare una situazione perché quando queste sono complesse e non presuppongono una soluzione univoca, non ci può essere un unico vincitore.
Ecco perché cercherei di lasciare fuori le opinioni sul personaggio e di accordarci su un tema comune: il fatto che Chiara Ferragni sia una figura rilevante nel nostro contesto sociale. Ne sa di moda, di trend, è brava a comunicare, ha da sempre avuto un network pazzesco e potremo continuare questo elenco. L’obiettivo di questa mia analisi oggettiva della Ferragni non mira tuttavia a elencarne le qualità. Volevo cercare di rispondere a chi nei giorni scorsi diceva: “Ma cosa ne sa di arte“? Cercare di giudicare una persona sulla base di quello che pensiamo noi è un bias. La verità è che non lo sappiamo, ma, se dobbiamo comparare le sue competenze rispetto agli appassionati/critici/d’arte e operatori museali che hanno commentato la notizia posso dedurre che molto probabilmente ne sappia di meno.
Al di là delle opinioni quello che infatti mi interessa molto di più è il ragionamento che smuove la critica: perché assumere lei invece di dare rilevanza a noi (operatori museali) che abbiamo le competenze?
Partiamo da queste premesse per continuare la mia analisi.
Senza entrare troppo nello specifico, possiamo dire che le competenze di un operatore museale o di uno specialista/curatore d’arte servono per gestire visitatori e visite guidate, rispondere a domande, creare esperienze e simili. Ma affinché ciò succeda, c’è bisogno che ci siano visitatori: c’è stata la pandemia, c’è la paura di assembramenti (gli Uffizi sono il museo più frequentato in Italia dopo i musei Vaticani a Roma) portando a un calo drastico nei turisti che arrivano da tutto il mondo per vedere le bellezze italiane.
L’obiettivo è quello di attrarre visitatori, e non rientra tra le competenze di un operatore museale. È un obiettivo di marketing.
Quali sono le competenze di chi fa digital marketing?
Senza entrare troppo nello specifico direi saper fare strategia, comunicare, scrivere, analizzare il target di riferimento e saper usare le leve di marketing per coinvolgere il pubblico tramite i social, google ads, video, content ecc..
Tra tutte queste, per la mia esperienza, le competenze di un marketer che fa la differenza per un brand possono essere riassunte nella capacità di raccontare in modo creativo le situazioni.
E, guarda caso è proprio una delle competenze migliori degli influencer: sono bravi a comunicare e a raccontare in modo creativo le situazioni.
Sono così bravi che vengono chiamati dagli uffici marketing per supportarli. A dire la verità, spesso gli influencer nel marketing digitale ne sanno molto, quasi di più dei dipartimenti di marketing aziendali perché se ti guadagni da vivere facendo l’influencer “non ti fai dei selfie per i like” ma sei responsabile dei contenuti che crei, della percezione che si fa di te la tua community e dei risultati che ottieni per il tuo personal brand e verso il brand dell’azienda cliente. Se sei un influencer, sei un libero professionista e se non lavori bene non potrai mai giustificarti dicendo che “hai fatto tutto il possibile ma quella campagna non è andata bene e i visitatori non sono venuti all’evento”.
Il lavoro degli influencer riguarda la conoscenza dell’arte e di tutte le opere di Botticelli e del Rinascimento italiano? Forse no.
Qual è l’obiettivo di una campagna di influencer marketing?
Torniamo ad analizzare il contesto di partenza: gli Uffizi perdono visitatori, quindi calo di vendite.
Paragoniamo gli Uffizi a un’azienda: come si fa a gestire nel breve termine un calo di fatturato senza investire nello sviluppo di nuovi prodotti (che nel caso di un museo sono nuove mostre o nuovi eventi)?
Si lavora a livello strategico sulle leve di marketing dei prodotti esistenti come prezzo, prodotto, distribuzione e promozione e si trovano le modalità più performanti per eseguire la strategia.
L’influencer marketing è da considerarsi al pari di un investimento pubblicitario, ossia una tattica per eseguire la strategia su canali non proprietari (paid media). Allo stesso modo di un investimento pubblicitario, quando è sviluppato bene determina picchi consistenti di traffico che convertono con un aumento della brand awareness e delle vendite.
A una settimana dalla foto il post della Ferragni ha portato a un +27%. Obiettivo raggiunto? Sì.
Come e perché lanciare una campagna di influencer marketing per una digital strategy?
Per sapere se ha senso lanciare una strategia di influencer marketing è necessario analizzare target e value proposition di prodotto. Non è detto infatti che campagne di questo tipo vadano bene a priori per qualsiasi tipo di prodotto o servizio, e spesso, anche se ci sono influencer che approcciano le aziende, le performance si ottengono quando è l’azienda che mette da parte i like e definisce obiettivi e metriche.
La campagna di influencer marketing deve infatti essere allineata alla digital strategy, l’insieme di tattiche devono convergere verso obiettivi e metriche definite in un livello superiore.
Ho recentemente lavorato a un’app che permette l’analisi della nutrizione tramite la valutazione degli ingredienti di marchi e prodotti della GDO.
Il target principale era genitori e/o appassionati di sport: due nicchie quasi naturalmente predisposte ad ascoltare i consigli di chi considerano più competente o più conosciuto nel loro contesto sociale.
Scegliendo bene l’influencer e lavorando su un brief condiviso abbiamo constatato che una settimana di campagna di influencer marketing ha portato a +70% di acquisizione diretta dagli app store, con un aumento della percezione di brand e feedback molto interessanti dalla nicchia degli intolleranti. Abbiamo speso con un budget simile a quello speso su Facebook ma un costo di acquisizione minore del 23% rispetto a quello delle campagne di app install, con una conversion rate e una retention a una settimana dal download molto più alte.
Perché abbiamo scelto di avviare una campagna di influencer marketing?
L’obiettivo era proprio questo: ottenere app install da utenti in target (genitori e/o sportivi) appartenenti a nicchie che con le campagne di Facebook install facevamo fatica a convertire, per esempio gli intolleranti. Abbiamo scelto di lavorare con influencer specifici e verticali sui temi trattati che in genere sono più performanti rispetto a personaggi molto più popolari come la Ferragni. I contenuti postati dagli influencer sono stati legati alle funzionalità e ai temi trattati dall’app, che sicuramente erano temi simili a quelli dei nutrizionisti, ma nessun nutrizionista ha polemizzato sulla scelta come invece è successo per gli operatori museali nei confronti della Ferragni.
L’obiettivo alla base della scelta di coinvolgere nutrizionisti o influencer era diverso.
Ecco che allo stesso modo, la scelta degli Uffizi di coinvolgere un’influencer o un operatore museale, presupponeva un obiettivo completamente diverso.
Quando non serve lanciare una campagna di influencer marketing?
Come dicevo qualche riga più su per decidere se lanciare oppure no una campagna di influencer marketing è necessario analizzare target e prodotto.
Per alcuni target le campagne di influencer marketing potrebbero infatti non essere efficaci: proviamo a pensare per esempio ai target più B2B come manager, CEO, founder, direttori di stabilimento. Nella maggior parte dei casi sono tutti soggetti dove un influencer, immaginiamo Montemagno, potrebbe non aiutare la vendita di un prodotto come un software o un servizio di manutenzione perché sono target che non sono direttamente influenzabili su larga scala. E, anche quando lo sono, la scelta di acquistare un software o un servizio è molto più difficile rispetto alla decisione immediata di acquisto di un biglietto per un museo. Potrebbe invece avere molto più senso provare a creare una community di appassionati su certe tematiche (come la newsletter che stiamo creando con Future Weavers by Uqido) o promuovere tra i clienti iniziative di ambassador affinché tramite contenuti ed eventi si possano raggiungere obiettivi di brand awareness e consideration su larga scala. L’ulteriore complicazione è che in tutti questi casi non si può parlare di breve termine.
Altro limite delle campagne di influencer marketing è dato dal fatto che un prodotto di valore e di nicchia spesso non ha l’obiettivo di scalare brand awareness e le vendite come avviene per i prodotti a largo consumo.
L’esempio in questo caso è meno conosciuto: coinvolge il mitico Nick Cave famoso cantautore internazionale che adoro, un po’ di nicchia in Italia, che si innamora dei pianoforti Fazioli dopo una performance solitaria all’Alexandra Palace nel nord di Londra. Ne parla ampiamente nel suo sito spiegando che “il suo suono caldo e soffice mi ha parlato come non aveva fatto nessun altro piano prima. Sono stato travolto dalla sua straordinaria gamma di suoni. Mi ha sussurrato. Mi ha ruggito. è stato lo strumento più bello che io abbia mai suonato.”
In una telefonata con il suo manager Nick Cave chiede di poterne avere uno, gratis, come succede per qualsiasi artista ben meno conosciuto: sono tanti gli endorsement che le aziende di strumenti fanno agli artisti anche minori per ottenere visibilità (lo dico con cognizione di causa, da ex-musicista). Solo che il manager, quando il giorno dopo telefona all’azienda di Sacile (Pordenone) si trova a parlare al telefono con una persona che non sa chi sia Nick Cave e risponde negativamente alla richiesta del pianoforte. Nick Cave descrive la situazione in modo sarcastico sul sito, i fan iniziano a mandare email di protesta all’azienda ma l’azienda non cede, spiegando che la motivazione del rifiuto è la politica aziendale: produce circa 140 strumenti all’anno in maniera assolutamente artigianale e non fa promozioni di questo tipo con gli artisti. Perché, vi domanderete? Molto probabilmente il prodotto ha un valore così elevato che aumentare la brand awareness tramite campagne di influencer, potrebbe portare a un aumento di vendite che forse l’azienda non riuscirebbe a gestire e forse non c’è la volontà di scalare il mercato, ma continuare a lavorare sulla nicchia di veri appassionati e professionisti che inseguono la qualità.
Nick Cave interviene ulteriormente per placare gli animi dei fan ma quello che mi domando ora è: perché sono così pochi in Italia quelli a essersi schierati con o contro l’azienda di pianoforti? Perché non c’è il buzz che abbiamo letto quando tutti commentavano gli Uffizi, (look della Ferragni compreso) e si schieravano per forza come durante i mondiali di calcio?
Cos’è che cambia tra Nick Cave e la Ferragni? Qual è la differenza tra gli Uffizi e la Fazioli?
Conclusione
Se un influencer lavora bene, ne sa a pacchi ed è molto competente, diventa un professionista.
Se un dipartimento di marketing lavora bene e decide di lavorare con un influencer professionista, con il quale definisce obiettivi e metriche ottiene spesso un riscontro positivo nel breve termine.
La campagna di influencer marketing non è tuttavia una strategia: per ragionare sul lungo termine sarà necessario integrarla in una strategia di digital marketing a più ampio respiro, altrimenti il picco di vendite/visibilità potrebbe essere limitato a quel periodo di tempo e non ottenere un effetto davvero positivo a livello di brand e vendite, sarebbe solo un passaparola virale momentaneo. Ecco perché la campagna della Ferragni agli Uffizi non è davvero un successo se la analizziamo da un punto di vista strategico: +27% rispetto alla settimana precedente può essere un buon risultato, ma qual è l’obiettivo di marketing digitale del museo e quali altre campagne svilupperà per raggiungerlo?
Chi non si ferma alle polemiche vede le opportunità: ecco che sotto un altro punto di vista questo +27% è un risultato interessante equiparabile a una prima validazione di un’idea di business per chi pensa a un’app che aggrega campagne e influencer e aiuti i musei ad attrarre visitatori, sfruttando il digitale per aumentare engagement e vendite.
Mi auguro che in un futuro non lontano i “nuovi lavori digitali” come quelli degli influencer saranno sempre più parte del modo di pensare e di agire quotidiano di un Paese in grado di accettare che i cambiamenti sono la vera base per costruire e ripartire.
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